Immagini da Sarajevo, luogo discusso, controverso e affascinante; capitale della Bosnia ma non di tutti i bosniaci.
È la città della Baščaršija e della Vijećnica restaurata, dei palazzoni di Grbavica e Alipašino polje; dei negozi di souvenir che vendono centinaia di cezve per adornare i salotti dei turisti europei e magliette taroccate di Messi e Cristiano Ronaldo. A fianco, le botteghe di chi le cezve le intaglia a mano da sempre e le usa per bere il caffè turco: un vero e proprio rito, non un semplice soprammobile.
Un’infinità di libri, film, giornali e telegiornali hanno raccontato la città proponendo punti di vista differenti e spesso diametralmente opposti. Oggi Sarajevo non è più la città dell’assedio – al massimo dei suoi segni – e non è nemmeno più la “Gerusalemme d’Europa” come in molti solevano soprannominarla…
È però la città delle kafane e delle aščinice, espressione migliore della tradizione culinaria bosniaca; delle salite quasi verticali di Vratnik, dove il centro città si inerpica sui fianchi delle alture diventando in poche decine di metri villaggio di campagna. Una transizione non solo spaziale ma anche urbanistica, uno spaccato della morfologia bosniaca in versione Bignami.
È anche una delle poche città in cui sono i boschi, gli alberi e le colline a strappare spazio a case, strade e cemento, interrompendone violentemente l’espansione per lasciare spazio a prati, fiumi e piccole abitazioni.
Sarajevo è anche la città profondamente solcata da una linea invisibile che separa i propri abitanti bosgnacchi e croati da quelli serbi. Per i Serbo-bosniaci, residenti perlopiù nella parte orientale di Sarajevo, la capitale che viene sentita come propria si chiama Banja Luka e dista quasi 200 chilometri, nonostante quella “ufficiale” sia a poche fermate di tram.
In realtà, poco importa sapere cosa sia o non sia Sarajevo, affibbiarle un giudizio univoco, un’etichetta, o tentare di riassumerla in poche parole. Ciò che resta è una città inimitabile, ricchissima di stimoli e – a costo di sembrare retorico e pressapochista – unica.
È la città della Baščaršija e della Vijećnica restaurata, dei palazzoni di Grbavica e Alipašino polje; dei negozi di souvenir che vendono centinaia di cezve per adornare i salotti dei turisti europei e magliette taroccate di Messi e Cristiano Ronaldo. A fianco, le botteghe di chi le cezve le intaglia a mano da sempre e le usa per bere il caffè turco: un vero e proprio rito, non un semplice soprammobile.
Un’infinità di libri, film, giornali e telegiornali hanno raccontato la città proponendo punti di vista differenti e spesso diametralmente opposti. Oggi Sarajevo non è più la città dell’assedio – al massimo dei suoi segni – e non è nemmeno più la “Gerusalemme d’Europa” come in molti solevano soprannominarla…
È però la città delle kafane e delle aščinice, espressione migliore della tradizione culinaria bosniaca; delle salite quasi verticali di Vratnik, dove il centro città si inerpica sui fianchi delle alture diventando in poche decine di metri villaggio di campagna. Una transizione non solo spaziale ma anche urbanistica, uno spaccato della morfologia bosniaca in versione Bignami.
È anche una delle poche città in cui sono i boschi, gli alberi e le colline a strappare spazio a case, strade e cemento, interrompendone violentemente l’espansione per lasciare spazio a prati, fiumi e piccole abitazioni.
Sarajevo è anche la città profondamente solcata da una linea invisibile che separa i propri abitanti bosgnacchi e croati da quelli serbi. Per i Serbo-bosniaci, residenti perlopiù nella parte orientale di Sarajevo, la capitale che viene sentita come propria si chiama Banja Luka e dista quasi 200 chilometri, nonostante quella “ufficiale” sia a poche fermate di tram.
In realtà, poco importa sapere cosa sia o non sia Sarajevo, affibbiarle un giudizio univoco, un’etichetta, o tentare di riassumerla in poche parole. Ciò che resta è una città inimitabile, ricchissima di stimoli e – a costo di sembrare retorico e pressapochista – unica.